Ho fatto allontanare tutti, e ho preso la lettera con mano già tremante. L’ho letta; e ho pianto. Non mi vergogno di dirlo. Ho pianto vedendo l’oscurità raggomitolata intorno alla Besana in una tiepida notte di primavera. Vedendo i pianoforti di Isgrò galleggiare in quella penombra d’acquario, poche luci ma puntate proprio lì, sulle pagine dei suoi spartiti chopiniani. Quelle note scompigliate dal vento di primavera della sua fantasia, raggrumate, volanti, concentrate, sperdute nello spazio immenso della pagina bianca; quella musica ipotetica come le stesse accensioni dell’immaginario; quei segni sparsi sulla pagina con la meticolosa precisione di chi ha studiato ogni possibile rapporto fra segno e pagina, fra significante e significato, fra libertà della fantasia e dura pratica dell’arte. Riconosco a Isgrò un rigore, in queste ricerche, inimitabile, forse unico.
E su tutto, ho visto aleggiare la sua ironia. La capacità di essere nelle cose, e di rimanere distaccato nello stesso tempo, di essere ingenuo con astuzia luciferina, di tornare al passato (addirittura al Romanticismo) per avere un posto preciso nel suo tempo. Capisco anche la scelta di Chopin.
Flavio Caroli, Chopin o del riflusso pilotato, in “Chopin. Emilio Isgrò”, catalogo dell’installazione, Rotonda della Besana, Milano, 1979.