Ho realizzato i Codici ottomani partendo da una “Storia degli Ottomani” di almeno un secolo fa, un’infilata di grossi volumi pieni di macchie, di muffe e di tarme. E il problema che mi si è posto, dopo aver cancellato tante lingue vive e viventi come l’italiano, il francese o l’inglese (trascritte in genere in un alfabeto per me leggibile) è stato quello di cancellare una lingua morta per me indecifrabile, e comunque incompatibile con quel turco moderno che ha acquisito da quasi cento anni i caratteri latini che tanto spaventano gli antichi sultani, senza scomporre peraltro l’ardimentoso Atatürk: il quale sapeva bene che ogni modernizzazione comporta necessariamente l’obbligo di cancellare quelle forme del passato che bloccano il cuore e le azioni degli uomini.
Anche questa cancellazione è dunque un lascito del padre dei turchi, la memoria di un cancellatore glorioso (e soprattutto estraneo a ogni fondamentalismo culturale o religioso) che noi europei sentiamo a volte non troppo distante da noi, e tuttavia turco fino alle midolla, innamorato del proprio Paese, e, forse, anche delle sue contraddizioni.
Emilio Isgrò, Atatürk il cancellatore e altri preliminari per la mostra di Istanbul, in “Var ve Yok (C’è e non c’è). Codici Ottomani”, quaderno della Fondazione Marconi, 2012, p.1.